Il Vangelo secondo Marco
Il Vangelo secondo Marco, con i suoi 16 capitoli, è il più breve dei quattro vangeli. Proprio per la sua brevità, oltre che per lo stile considerato poco elegante, è stato trascurato per secoli dagli studi biblici e dalla liturgia, tanto che fino al concilio Vaticano II in tutto l’anno liturgico se ne leggevano solo quattro brani, oltre al racconto della Passione. Oggi questo scritto è stato ampiamente rivalutato per la sua avvincente forza narrativa, lo stile vivace, “moderno”, sempre attento ai dettagli, ed è il vangelo più commentato dagli studiosi e il preferito dai catechisti.
La maggior parte degli studiosi moderni concorda sul fatto che Marco sia stato il primo autore a raccogliere i fatti principali della vita di Gesù e alcuni suoi insegnamenti, in modo da ottenere un racconto continuo: con quest’opera, l’“evanghelion” –“buona novella”– da annunzio fatto a voce è divenuto per la prima volta opera scritta, un vero e proprio “genere letterario” nuovo. L’evangelista ha riportato integralmente il materiale della Tradizione orale senza scomporlo o aggiustarlo e senza elaborare grandi sintesi teologiche personali, perciò la sua opera assume una particolare importanza perché riproduce fedelmente il patrimonio evangelico formatosi nella Chiesa primitiva. In seguito questo testo è stato usato come fonte dagli autori degli altri due vangeli sinottici (Matteo e Luca), assieme a un’altra narrazione chiamata la “fonte Q”.
L’autore - luogo - data di composizione
Come gli altri Vangeli anche questo non è firmato e non fornisce indicazioni circa il suo autore, sulla cui identità storica gli studiosi discutono tuttora. È solo un’ipotesi che Marco possa essere identificato con il giovanetto protagonista di un episodio presente solo in questo vangelo e che pare essere autobiografico («Lo seguiva, un ragazzo che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo» cfr. 14,51-52).
La tradizione della Chiesa ha identificato l’autore del secondo vangelo con il Giovanni Marco di Gerusalemme di cui parlano gli Atti degli Apostoli, cugino di Barnaba che lo presentò a Paolo in occasione del loro viaggio da Antiochia a Gerusalemme (cfr. Col 4,10; At 12,12.25; At 13,13; At 15,37-39). In seguito Marco si sarebbe unito a Pietro divenendone discepolo e collaboratore (cfr. 1Pt 5,13) e del quale avrebbe messo per iscritto la testimonianza. Al di fuori del Nuovo Testamento le prime notizie di quest’opera e del suo autore risalgono al II secolo in un’attestazione di Papia, vescovo di Gerapoli che ne cita e commemora una ancor più remota: «Anche questo il presbitero era solito dire: Marco, che fu interprete di Pietro, scrisse con cura, ma non in ordine, ciò che ricordava dei detti e delle azioni del Signore. Egli infatti non aveva ascoltato né seguito il Signore, ma più tardi, come ho detto, ascoltò e seguì Pietro».
Gli studiosi moderni confermano che l’autore è di origine ebraica, scrive in un greco molto semplice, privo di ricercatezza stilistica, con una sintassi tipica del linguaggio popolare. L’evangelista comprende l’aramaico. Il testo contiene molti termini in questa lingua, parlata correntemente in Palestina all’epoca di Gesù e che sono presenti solo in questo vangelo: «Boanèrghes» (3,17), «talità kum» (5,41), «korbàn» (7,11), «effatà» (7,34), «Abbà» (14,36).
Secondo quanto affermano alcuni padri della Chiesa, l’opera sarebbe stata scritta a Roma intorno al 65-70 d.C., subito dopo la morte di Pietro (64 d.C.). I destinatari probabilmente non erano ebrei ma romani provenienti dal paganesimo, appartenenti a una comunità perseguitata e sollecitata all’impegno missionario, come confermano l’importanza data al discepolato e alla sequela, e l’insistenza sul fatto che la predicazione del Regno non sia limitata ai soli ebrei. Inoltre l’autore usa parole e locuzioni latine e si prende cura di fornire il corrispondente latino di alcuni termini greci, di spiegare costumi e usi liturgici giudaici (cfr. 7,3-4; 14,12; 15,42), di dare dettagli geografici (cfr. 1,5-9; 11,1; 11,17; 13,10), di tradurre le parole aramaiche evidentemente incomprensibili ai suoi lettori (cfr. 3,17; 5,41; 6,34; 14,36; 15,22.24). I richiami all’Antico Testamento sono scarsi (appena 18) e sono omessi molti dei riferimenti alla Legge mosaica che si trovano nel vangelo di Matteo.